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- Autore: Redazione BlogDiMusica
- Pubblicato: Lug 12, 2015
- Categoria: Recensioni
St. Vincent live@ Roma, 08/07/2015
Quando l’anno scorso ero al Primavera Sound di Barcellona (è una delle cose più fiche che ho fatto nella mia vita poco entusiasmante, per cui ogni volta non vedo l’ora di usarla come argomento di conversazione) mi sono dovuta scontrare con l’inevitabile scoglio del partecipante famelico: le sovrapposizioni d’orario. Tra le altre, ce n’era una particolarmente stridente: St. Vincent vs Neutral Milk Hotel. Un’algida dea vs un gruppo di barbuti e saltellanti taglialegna del Sud. Vinsero i NMH per la semplice ragione che trattavasi di tour di reunion di band non più in attività, e rischiavo di non vederli mai più nella vita. Finì che passai più di un’ora sotto il palco a piangere cantando a squarciagola canzoni sull’Olocausto, e dimenticai St. Vincent senza troppi rimpianti.
Quando quest’anno ho visto l’algida dea in cartellone a Roma incontra il mondo, però, non ci ho pensato due volte. Era la mia occasione di redenzione per aver preferito. in passato, l’emotivo allo spirituale. La location – Villa Ada, il verde, il lago e tutto il resto – avrebbe aiutato la trascendenza. Non potevo perdermela.
A Villa Ada c’erano davvero tutti: anche, per dire, Emma Marrone, venuta probabilmente a lezione d’eleganza. C’era persino Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion: lui, però, sul palco, ad aprire il concerto suonando in anteprima pezzi dal nuovo album solista, in uscita il prossimo autunno.
La distanza tra i due act è siderale: la musica di Viterbini è carne e sangue, è spirito primitivo e delicatezza insieme, anche senza il degno compare Petulicchio. St. Vincent è robotica, elegante, futuristica. L’unica cosa che li accomuna è il virtuosismo. Ma quello di Viterbini è virtuosismo da subbuglio di viscere, e quello di St. Vincent, si diceva, è trascendenza. Troppa.
Perché sì, la troppa perfezione di St. Vincent, sulle lunghe distanze, diventa un problema. La prima canzone ti fa sgranare gli occhi. La seconda, le orecchie. La terza ti fa alzare le braccia al cielo e gridare al miracolo. Ma il cuore, quello non si apre mai.
Formalmente, Annie Clark da Tulsa è impeccabile: ottima chitarrista, gran voce, presenza scenica quasi illegale. Gioca molto sulla distanza tra sé e noi umani. Si presenta in una guaina di pelle traforata capace di far perdere la testa perfino a donne etero e uomini gay. Si profonde in mossette e passettini la cui ispirazione diretta sembra David Byrne (con cui ha collaborato e che la adora). Si issa su una pedana che è come e più di un piedistallo. Visivamente, l’effetto è notevole e straniante. Ma dopo tre quarti d’ora di performance il pensiero è solo uno, e condiviso: sbraca Annie, sbraca! È tutto così perfettamente costruito, lasciati andare! Meno scena e più spettacolo, daje, osa! Sei figa, sei brava, che ti manca?
Il sangue. Ad Annie Clark manca il sangue. Pensavo che l’etereità bastasse, e mi sbagliavo. E mentre mi dico queste cose, lei alla fine quasi sbraca per davvero. Finge di accasciarsi, si rialza, si adagia (non si getta: si adagia) in mezzo al pubblico, afferra uno striscione con scritto “Marry us”, lo trascina sul palco, concede un paio di ammiccamenti – sempre robotici – e se ne va, leggiadra, come se non avesse appena suonato per un’ora e mezza.