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- Autore: Redazione BlogDiMusica
- Pubblicato: Set 17, 2015
- Categoria: News
All You Can Eat: il piatto forte degli Slivovitz (INTERVISTA)
Dopo quattro anni d’attesa, tutti i fan degli Slivovitz potranno finalmente saziarsi le orecchie con la loro ultima leccornia: sarà, infatti, presentato stasera al Cellar Theory di Napoli il loro ultimo disco All You Can Eat – lauto banchetto per chi, come noi, ha fame di Musica.
Chef stellati del progressive gypsy electro-eclectic jazz partenopeo, gli Slivovitz ritornano ‘in tavola’ sfornando un piatto musicale ancora fumante, di quelli tanto prelibati da non poter fare a meno di chiedere il bis: dopo Bani Ahead, ritenuto da molti la loro opera più riuscita, il settetto napoletano sperimenta con rinnovata destrezza il suo gusto per l’eccesso, riuscendo a esaltare ancora di più quegli energici e intensi sapori che, abilmente mescolati in una ricetta tanto segreta quanto esplosiva di jazz, rock, etno e funk, ne hanno fatto l’eccellenza del gourmet musicale italiano.
Esuberanti e vivaci come l’acquavite slava di cui portano il nome, gli Slivovitz diventano col passar del tempo sempre più gustosi: li abbiamo quindi incontrati perché ci concedessero un assaggio del ricco menù da 8 portate inedite che si apprestano a “servire” al loro famelico pubblico.
Avete scelto di finanziare quest’ultimo progetto a mezzo di una campagna di crowdfounding su MusicRaiser.com, eppure circola la voce che il vostro successo sia dovuto alla vostra condizione di “figli di papà”…
Pietro Santangelo, sassofonista: Mah, sinceramente a me questa storia dei “figli di papà” fa un po’ ridere. In realtà, mi piacerebbe essere molto più figlio di papà: promuovere un disco, pagare un ufficio stampa e via dicendo, può essere molto costoso e molto spesso mi sono ritrovato nella condizione di dover mettere i “soldi avanti” (Bani Ahead si riferisce proprio a questo), soldi che fortunatamente avevo a disposizione e che non ho esitato a investire perché, come Bob Marley, sono convinto che occorre aiutare il più debole quando sei forte. Abbiamo scelto il crowdfounding perché, in un momento di crisi dell’industria discografica come quello che viviamo, costituisce uno strumento forte in termini non solo di promozione, ma anche e soprattutto di aggregazione: la piattaforma di MusicRaiser, in questo senso, è fatta benissimo e ci ha aiutato ad aggregare gli ascoltatori sulla base di un interesse reale, opponendosi nettamente a tutti quei meccanismi di massificazione che oggi fanno leva semplicemente sulla viralità di un contenuto, che spesso si rivela anche di valenza culturale bassa. Detto ciò, gli Slivovitz sono sempre stati un gruppo autoprodotto, autogestito e autopromosso e, ribadisco, nulla vieta che il benessere possa essere strumentale alla produzione di qualcosa di valido.
Tra jazz, rock, etno e funk, siete per antonomasia i Maestri della contaminazione e della mescolanza, eppure in copertina continua ad esserci il vostro amato “ciuccio”, l’asino simbolo della vostra città e dunque della vostra identità. Cosa rappresenta per voi Napoli?
Marcello Giannini, chitarrista: Beh, il fatto di essere nati e cresciuti a Napoli, di aver ascoltato artisti come James Senese, Pino Daniele, Napoli Centrale o di aver suonato con musicisti come Daniele Sepe ci ha senz’altro influenzati. Purtroppo, Napoli come città in sé non ha molto da offrire ai suoi giovani creativi. Allo stesso tempo, però, è proprio la nostra appartenenza a Napoli a darci un modo di approcciare alla musica energico e “arrabbiato”, nel senso buono del termine.
Vincenzo, tu sei l’ultimo arrivato nel gruppo. Cosa significa aver visto gli Slivovitz prima dall’esterno e, poi, dall’interno?
Vincenzo Lamagna, bassista e contrabbassista: Quand’ero piccolo gli Slivovitz erano l’unico gruppo che ritenessi interessante a Napoli: certo, c’erano i 99Posse, ma loro mi piacevano di più. Già li avevo conosciuti tramite il Crossroads Improring, il collettivo di improvvisazione musicale di cui tutti noi facciamo parte, ma non mi aspettavo di entrare a far parte della band. Da principio le cose non sono state facili, “starci dentro” significa anche andare incontro a interminabili discussioni, ma sul palco ci divertiamo tanto e, adesso come adesso, posso dirmi non solo contento ma anche onorato di suonare con loro.
Attivi dal 2001, avete pubblicato finora 3 album, “Slivovitz” (2004), “Hubris” (2009) e “Bani Ahead” (2011): se doveste ripercorrere il vostro iter evolutivo fino a “All You Can Eat” come lo descrivereste?
Riccardo Villari, violinista: Sicuramente in “Slivovitz” eravamo più spontanei, quasi ingenui, e nella nostra musica prevaleva una componente più etnica – cosa che personalmente rientra tra le mie preferenze – ma c’era comunque una certa naïveté. Dal secondo album, “Hubris”, abbiamo preso una svolta jazz, che io ritengo un genere troppo cerebrale, per poi passare con “Bani Ahead” ad influenze più marcatamente rock, un ritorno dunque a una musica più istintiva. In quest’ultimo disco c’è un po’ tutto questo, ma ciò che in particolare amo di “All You Can Eat” è l’approccio melodico, perché è più semplice e accessibile: la musica, del resto, deve arrivare proprio a chi musicista non è.
“All You Can Eat” è stato reso in italiano, da alcuni, come “Tutto quello che puoi mangiare”, ma in questo caso il verbo “can” significherebbe “riuscire” più che “potere”: in generale, è meglio potere o è meglio riuscire?
Ciro Riccardi, trombettista: In realtà, sarebbe meglio poter fare tutto e poi scegliere quello in cui riuscire. Se è vero che tutto quello che è in potenza esiste, è anche vero che bisogna scegliere, altrimenti tutto si moltiplica all’infinito: “All You Can Eat”, nella fattispecie, è sicuramente un album riuscito, ma è anche un album del possibile, che apre cioè ad altre strade da scegliere.
Cosa vi ha spinto a scegliere per la presentazione del vostro ultimo disco proprio il Cellar Theory?
Salvatore Rainone, batterista: Se devo proprio essere onesto, e risultare forse per questo un po’ indelicato, il Cellar Theory è stato l’unico club che ci ha pagato in anticipo su MusicRaiser: sono stati gli unici, insomma, a investire su di noi. Sul piano personale, il locale in sé rappresenta un’esperienza vissuta in prima linea per ben sette mesi in qualità di gestore. Devo confessare però, che avrei preferito un posto più grande. Come nome, come istituzione, il Cellar Theory resta ad ogni modo un luogo che mi ha permesso, e che permette, di sperimentare, in senso quanto più lato, la mia musica.
Non ci resta che prendere posto a tavola, legarci stretto al collo il tovagliolo e augurare buon appetito a chi davvero è ingordo d’orecchi.
Author: Francesca Fichera